La sentenza del 25 novembre 2015 del Tribunale di Lecce – Dott.ssa Annafrancesca Capone – desta notevole interesse poiché esempio di lucida applicazione di tutti i più recenti approdi giurisprudenziali in tema di responsabilità medica per omissione e del relativo accertamento/liquidazione in concreto dei danni astrattamente configurabili.
L’analisi della giurisprudenza pretoria sul tema è fondamentale, in quanto il giudizio sulla sussistenza della responsabilità e dei danni è riservata al Giudice dei primi due gradi, il quale applica nel concreto quello che la norma o la giurisprudenza di legittimità hanno stabilito solo in termini astratti. È solo grazie alla giurisprudenza di merito, dunque, se l’operatore del diritto può comprendere nel concreto i gangli della complessa materia del risarcimento per danni da colpa medica.
La sentenza prende le mosse da un caso di mal practice medica da cui era derivata la morte del paziente. In particolare, i medici dipendenti dell’Azienda sanitaria conventa in giudizio non avevano trattato correttamente il malato nel periodo successivo all’intervento chirurgico – di per sé eseguito correttamente – omettendo di diagnosticare la lenta emorragia interna in atto, che aveva poi cagionato la morte del paziente.
Con riferimento all’accertamento della colpa il Tribunale, dopo aver evidenziato che la responsabilità della struttura sanitaria è di matrice contrattuale, ha precisato che il danneggiato deve fornire la prova “dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica, nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari”.
Con particolare riferimento alla dimostrazione del nesso di causale nel caso di omessa diagnosi “deve essere raggiunta la prova, sulla base di un giudizio controfattuale, che – con alta probabilità logica – una condotta alternativa corretta avrebbe scongiurato l’evento di danno verificatosi”.
Dopo aver accertato la responsabilità dei medici, il Tribunale ha passato in rassegna le varie poste di danno di cui parte attrice invocava il risarcimento.
Con riferimento al danno biologico asseritamente patito dal de cuius, il Tribunale ha evidenziato che tale pregiudizio “è subordinato alla circostanza che il danneggiato sia sopravvissuto per un notevole lasso di tempo prima dell’evento rivelatosi poi mortale, subendo un danno autonomamente considerabile come danno biologico”.
Nel caso specifico, il paziente non ha subito un danno biologico poiché il decesso è intervenuto poche ore dopo l’aggravarsi delle sue condizioni generali, tenendo conto che sino al manifestarsi dell’aggravamento non era emersa in alcun modo una lesione della propria integrità fisica, essendo il malato allettato per l’intervento – eseguito correttamente sei giorni prima – e non per via della complicanza emorragica che si stava “segretamente” producendo.
In definitiva, la sopravvivenza di alcune ore non è sufficiente a determinare un danno biologico.
Con riguardo al danno morale iure successionis, il risarcimento “è ammesso solo nel caso in cui la vittima, nello spazio di tempo tra l’evento lesivo e la morte, sia stata cosciente ed abbia, quindi, potuto rendersi conto del suo stato e della fine imminente, soffrendo, fisicamente e moralmente, le conseguenze negative derivanti dalle gravissime lesioni subite”.
Nella fattispecie, considerato che il decesso è intervenuto a poche ore dall’aggravarsi delle condizioni di salute, il lasso di tempo è stato così breve che deve escludersi – anche in assenza di prove di diverso tenore – che il paziente “abbia avuto consapevolezza della sua fine imminente”.
Tale posta di danno, dunque, è risarcibile solo nel caso in cui tra mal practice ed exitus sia intercorso un periodo tale da poter ritenere che il paziente abbia “avuto il tempo” di rendersi conto della sua prossima dipartita, sempre che sia fornita la prova di tale consapevolezza.
Infine, il Tribunale prende posizione sulla richiesta di risarcimento del danno morale subita iure proprio dal coniuge e del figlio.
Secondo il Giudice “la perdita di un prossimo congiunto viola un diritto giuridicamente tutelato” e “la stessa natura del vincolo che unisce i componenti della famiglia nucleare giustifica il diritto al risarcimento del danno morale, in virtù di una presunzione, rilevante ex art. 2727 c.c.”.
Tale posta di danno, dunque, è risarcibile anche in assenza di prova specifica poiché secondo l’id quod prelumque accidit l’esistenza del vincolo nella famiglia nucleare giustifica la presunzione di sussistenza del pregiudizio.
Con riferimento alla liquidazione di tale pregiudizio, poi, il Tribunale accoglie la richiesta attorea formulata in corso di causa di applicazione le Tabelle Milanesi in luogo di quelle del leccesi indicate originariamente nell’atto di citazione, richiesta giustificata dalla giurisprudenza di legittimità concretizzatasi medio tempore.
La richiesta è ammissibile e va accolta in quanto non costituisce domanda nuova la mera precisazione quantitativa del petitum dipendente da un fatto sopravvenuto nelle more del giudizio. Per il Tribunale “costituisce fatto nuovo l’intervento della Corte Suprema” che ha elevato “il sistema di liquidazione empirico creato dal Tribunale meneghino a parametro equitativo di base su scala nazionale”, sicché l’applicazione delle Tabelle di Milano può essere richiesta per la prima volta anche in sede di comparsa conclusionale
fonte: altalex